martedì 14 giugno 2016

Due parole sul vino in Giappone

Filari di chardonnay in provincia di Oita

Finalmente è arrivato il momento di parlare di vino, non di riso, ma d'uva. In Giappone se ne consuma molto, ed è uno dei maggiori mercati mondiali, dove qualsiasi produttore vuole trovare uno sbocco commerciale. In Giappone però se ne produce anche: pochissima quantità, mercato prettamente interno, qualità… un po' così così. Dire che la qualità è scarsa è sicuramente una generalizzazione, e generalizzare non è mai una buona cosa, però bisogna anche guardare in faccia alla realtà e magari capire cosa si può fare per migliorare. Nelle pochissime degustazioni che vengono fatte all'estero di vino giapponese, la classica critica è quella della corposità inesistente: i vini sono spesso decisamente scarichi e pare di bere qualcosa di dilavato. Un'altra critica è quella dell'acidità molto accentuata e alle volte anche poco gradevole. Alla base di questi problemi ci sono dei fattori intrinsechi, cioè non migliorabili, e altri esterni, a cui invece si può porre rimedio. Quello che non si può fare è cambiare il territorio. Il Giappone presenta un clima estremamente umido se comparato a tutte le altre zone viticole mondiali. Limitandoci a un paragone con l'Italia, anche la zona tradizionalmente più vocata alla viticoltura, la provincia di Yamanashi nel Giappone centrale, vede valori di precipitazioni annui superiori alle zone più piovose italiane, Friuli orientale e dintorni. Inoltre la pioggia è concentrata in Giappone nel periodo estivo, in piena fase di sviluppo e maturazione dei grappoli. Un altro elemento sfavorevole è il terreno, che spesso è particolarmente fertile e umido, fantastico per molte coltivazioni, forse meno per fare il vino. Cosa invece si può cambiare in meglio? Secondo molti la mentalità produttiva. Forse un problema per il vino giapponese è che in Giappone si è sempre prodotta uva da tavola, e per di più di altissima qualità. Forse paradossale, ma in molti posti (molti), le cantine sono sorte per smaltire il surplus di uva da tavola, vinificandola. Il risultato di questo tipo di enologia è spesso francamente imbevibile. La tradizionale coltivazione dell'uva, ha poi effetto anche nelle tecniche colturali, per cui pare sia molto arduo convincere i coltivatori (che spesso vendono l'uva anche alle cantine) a modificare gli impianti produttivi. Tradizionalmente le viti vengono coltivate in enormi tendoni con rese che vedono diversi chili d'uva per ceppo. Ovviamente i coltivatori non hanno né la volontà né la convenienza a modificare impianti e rese per renderli più adeguati alla produzione di vino (che è solo un ripiego), visto il prezzo che riescono a spuntare per l'uva da tavola. Anche nel caso di quelle cantine che producono l'uva in proprio, sembra che la tradizione sia spesso ardua da modificare: gli impianti a spalliera sono ancora una novità, così come il concetto di limitare la produzione a favore di una maggiore qualità. Interrogati su queste questioni, molti produttori sostengono che in Giappone le tecniche viticole occidentali non sono applicabili: il tendone serve a contrastare gli effetti dell'umidità, per cui gli impianti a spalliera non vanno bene; più ceppi significano radici più in profondità, dove l'acqua ristagna e le radici marciscono; meno grappoli significano meno uva e quindi meno vino… e chi me lo fa fare?! Sarebbero tutte motivazioni valide, però alla fine quel che conta è il risultato, e quello che ci ritroviamo nel bicchiere dimostra che qualcosa non va.
Un'altra questione riguarda il mercato a cui questo vino si rivolge. Chi compra il vino giapponese forse non ha poi grande interesse a portarsi a casa un prodotto di qualità elevata. O, meglio, molti produttori non hanno la necessità di offrire un prodotto di alta qualità. Cioè, alle volte mi pare si tratti una clientela più attratta dallo omiyage (souvenir) che dal vino in sé: i giapponesi, quando vanno da qualche parte portano a casa tonnellate di souvenir, che sono nella stragrande maggioranza generi alimentari vari, dolci, frutta, sake e… nel nostro caso anche vino. Se vi capita di visitare una cantina vinicola tipo, vi stupite innanzitutto delle dimensioni: parcheggi bus, comitive in visita, cantine aperte, ristorante annesso, salone shopping che vende souvenir d'ogni genere, addirittura cappella per matrimoni! Ad una recente visita in una di queste "cantine" mi è capitato di cercare tra i portachiavi e le scatole di biscotti in vendita, dove fossero esposti i vini aziendali. Insomma, si tratta spesso di aziende che poco hanno a che fare col classico contadino vignaiolo e il suo casolare tra i filari. Di cosa stiamo parlando quindi? di grandi gruppi industriali, magari già nel settore alimentare o delle bevande alcoliche, che decidono di investire parte del loro capitale in una cantina vinicola, che poi sarà poco più di una scusa per creare una sorta di centro commerciale "enogastronomico". Va da sé che poi il vino prodotto, buono o cattivo, venduto o non venduto, abbia poca importanza.
E' questa la situazione dell'enologia in Giappone? Ovviamente no, è molto più complessa e variegata, ci sono anche piccoli produttori che cercano di fare del buon vino, ma quella che ho descritto sopra ne è una parte, e nemmeno troppo piccola. Ci sono segnali che indicano anche come una nuova generazione di viticoltori stia nascendo, e in futuro ci potranno essere grandi vini giapponesi in grado di competere a livello internazionale.

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